Squid Game: il successo che nessuno si aspettava
Squid Game è una serie sud-coreana, al momento la più vista in Italia e nel mondo sulla piattaforma Netflix. Per noi italiani Squid Game è disponibile in coreano con i sottotitoli in italiano, ma non dispiacetevene! È probabilmente la scelta migliore per poter apprezzare al meglio la recitazione del cast, che ci porta in una cultura completamente diversa dalla nostra, anche nei suoni.
È attualmente impossibile accedere ad un social senza trovare riferimenti alla serie, basti pensare al semplice biscotto di zucchero. Con Halloween che si avvicina poi non ci sorprenderebbe vedere qualche costume girare per le nostre città. Squid è il successo che nessuno poteva aspettarsi, nemmeno il suo creatore Hwang Dong-hyuk. L’inizio del lavoro del regista inizia una decina di anni fa, nel 2008. Finita la storia però non è stato facile trovare un produttore. Lo stesso Hwang Dong-hyuk in un’intervista confessa: “sapevo che sarebbe stato tutto o niente, un capolavoro o un bizzarro flop”.
Terrificanti giochi per bambini
Cosa fareste se vi promettessero un montepremi di milioni di euro partecipando ad un semplice gioco per bambini? È questa la proposta che viene fatta a Seong Gi-hun, un uomo ai margini della società. Seong Gi-hun vive con sua madre, e non ha un lavoro. A causa di scelte imprenditoriali sbagliate la fabbrica in cui lavorava è stata costretta a licenziarlo. Il suo matrimonio è andato in pezzi, e sua moglie, col nuovo marito, vuole portarsi sua figlia in un altro paese. Come se questo non bastasse Seong Gi-hun ama scommettere sui cavalli, e questo insano gioco d’azzardo l’ha portato a indebitarsi fino al collo. È infatti arrivato a firmare un accordo con i suoi strozzini, cedendo eventualmente i suoi organi in caso di mancato pagamento. Insomma, una vita a rotoli!
Arriva però una soluzione. Un uomo in metropolitana l’invita a fare un gioco, semplicissimo, per bambini! Se vince avrà in cambio dei soldi, se perde si beccherà un ceffone. Seong Gi-hun, all’inizio incredulo, accetta e vince una certa sommetta, non senza prendersi anche sonori schiaffi. L’elegante uomo gli lascia poi un bigliettino, il numero da chiamare per partecipare ad altri giochi, con i quali vincere altro denaro.
Seong Gi-hun chiama e gli viene comunicata date e ora dell’appuntamento. Sale su un furgoncino e tramite dei gas viene fatto addormentare. Quando si risveglia si ritrova in un enorme stanzone con tantissime altre persone. Sul suo petto il numero 465. Alcuni uomini mascherati spiegano a tutti i concorrenti le regole della gara, il montepremi per il vincitore è di 45,6 miliardi di won (corrispondenti a 33 milioni di euro). Viene imposto loro di firmare un contratto: il gioco finisce quando si viene “eliminati”. Beh ma alla fine in tutti i giochi è così, no?
Il primo gioco a cui partecipano è “Red light, green light”, il nostro tipico Un, due, tre, stella. Tutti sembrano sorpresi per la semplicità, ma tranquilli.
Il gioco inizia.
Nessuno si aspetta quello che sta per accadere. Chi si muove, muore.
Squid Game, una distopia presente e democratica
Squid Game ci porta in un incubo. Ambientazioni, colori, giochi infantili che si cospargono di sangue, di morte. I giocatori non hanno nomi, sono semplicemente dei numeri. Coloro che detengono il potere non hanno volti, identità, sono solo inquietanti maschere. Un potere gerarchico, in cui gli stessi uomini che fanno rispettare le regole sembrano costretti in una realtà ripetitiva e inumana. Il cibo è razionato, le ore di veglia sono controllate, anche il sonno.
Eppure regna una sorta de democrazia. Nessuno può avere più di un altro: non cibo in più, non vantaggi di nessun tipo. Domina inoltre la regola cardine della democrazia: la maggioranza vince. Infatti se la maggioranza dei giocatori decide di stoppare i giochi tutti possono tornare a casa.
Quello che spaventa di Squid Game non sono tanto i litri di sangue che scorrono e le membra che si scompongono, o forse sono anche quelli. Squid Game, al contrario delle normali distopie, non è ambientato in un futuro più o meno prossimo, ma del presente. Un presente che noi sentiamo sulla pelle. Il presente del capitalismo. Il tema cardine della serie richiama molto all’Oscar per miglior film, Parasite. L’estremo divario tra ricchi e poveri, porta quest’ultimi ad uno scontro costante tra di loro per un briciolo di pane. Anche in Parasite alla fine vediamo un gioco, quello di fingersi qualcun altro. Proprio come in Squid Game anche questo si rivela un gioco mortale.
Questa è una tematica estremamente sentita in Corea del sud dove il divario tra ceto ricco e ceto povero è impressionante. Un paese dove non esiste nemmeno un vero sistema pensionistico, e gli anziani sono costretti a lavori umilissimi pur di guadagnare qualcosa.
È proprio per questo che i concorrenti di Squid Game accettano il gioco, non hanno più nulla da perdere. Morire o vivere nelle loro condizioni vale lo stesso.
Ma di chi è voluto questo gioco? Dai ricchi, ricchi di tutto il mondo che li usano come “cavalli da corsa” su cui scommettere, per riuscire a provare ancora un’emozione. Anche la ricchezza sembra essere una condanna. Un mondo in cui si può avere tutto ma non si ha più voglia di nulla. E allora ci si spinge oltre, in cerca di un briciolo di emozione, di umanità persa.
Squid Game sta piacendo enormemente al pubblico, i suoi giochi, la gara, le storie più o meno commoventi di ogni personaggio. Quello che resta da chiederci è: sappiamo che anche noi facciamo parte del gioco?
Viviamo in una realtà dove se non sei il migliore puoi essere spazzato via, dove se non sei ricco hai diritto al peggio o al nulla. L’unica differenza è che noi non abbiamo firmato nessun contratto per partecipare.